CORALE NUMERO UNO
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Sinossi
Sono bambini vecchi gli esseri umani posseduti dal talento. Giocano per tutta la vita in un eterno presente solitario per il piacere degli altri. Vanno accuditi, vanno protetti. Una società che non rispetta i suoi vecchi, i suoi bambini e i suoi artisti odia se stessa.
Eleanor Szabo ‘Nuova antropologia'
La voce che guida questo primo coro di storie e personaggi è quella di Bronisława Wajs, detta Papusza, Bambola, una poetessa e cantante di etnia rom di origine polacca (per quanto imprecise siano le definizioni) che ereditò dalla madre il talento e la capacità di elaborare i canti e le favole tramandati oralmente fino a renderli storie e poesie nuove e originali. Il suo soprannome si diffonde tra tutte le tribù. Fin da bambina viene costretta a rinunciare al sonno e a partecipare alle veglie e alle feste notturne - un privilegio e una tortura - per ascoltare e memorizzare il repertorio letterario zingaro, come una cassaforte creativa, un vivo baule del tesoro, un registratore vivente sempre acceso. Il suo talento viene vissuto come un dono per tutti, confermando, ai miei occhi, come ogni società fortemente coesa e nella quale è vivo il senso del rito e della festa abbia un bisogno quotidiano dell'atto artistico e ne custodisca con cura gli autori ed esecutori. Le favole tramandate dal passato diventano, attraverso la trasformazione di Bambola, arte viva del presente, alla quale si aggiungono le sue storie originali. Questa artista, perfettamente integrata nella sua comunità e ad essa molto legata, viene convinta dallo scrittore e studioso Jerzy Ficowski a mettere su carta la sua enorme ricchezza di memoria e creazione e ad esibirsi nei teatri. Questo atto di rispetto e di omaggio verso una cultura spesso ignorata e sottovalutata viene letto da tutte le comunità prima con orgoglio - quando i teatri si riempiono per acclamare - e poi come un tradimento - quando Papusza, dopo essere stata gradualmente sottratta alla sua nomade quotidianità, viene usata dal potere politico come simbolo della necessità di integrare, snaturandole, le comunità cosiddette ‘zingare', trasferendole in artificiali campi stanziali dove le condizioni di vita sono spesso inaccettabili.
Bambola rimane sola e sospesa tra due mondi e due culture, entrambi irriducibili e prepotenti.
Non appartiene più a niente e a nessuno, punita da opposti conformismi per il suo desiderio di essere semplicemente e profondamente cittadina del mondo.
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Lontana dall'idealizzare la cultura zingara, rom, sinti, ne sento tutta la distanza e il mistero.
Penso alle culture nomadi e a quelle stanziali, ai loro diversi concetti di proprietà, lavoro, espressione artistica, al passaggio misterioso dalla trasmissione orale ad quella scritta e alle modificazioni insite in questo processo, alla questione della proprietà delle idee e della creazione artistica, al posto che il talento ha nella nostra società rispetto al passato e alla necessità di ritrovare, attraverso l'arte, qualche rito che ci ricordi cosa significa essere comunità. Guardo anche, all'opposto, i meccanismi che portano all'emarginazione e alla persecuzione, che ad ogni epoca, per paure simili e diverse, si risvegliano. Ricordo il tempo nel quale era normale vedere gli zingari accampati nelle nostre campagne e rivedo mia madre che scopre in casa il bimbo rom con tutti i nostri gioielli nelle tasche. Allargo lo sguardo agli eventi più recenti che ci vedono testimoni, spesso incapaci di reagire, di tragiche cancellazioni di popoli e culture, incerti se comprendere o rifiutare. Penso alle nostre case piene di carabattole e a tutti coloro che lasciano la loro terra senza niente tra le mani per salvare la vita. Riprendo in mano il libro di Salza, Niente, che narra diverse storie di sfruttamento e povertà.
Mi interrogo su come la forza vitale miracolosamente sopravviva alla fragilità.
Penso a come, viaggiando in molti luoghi, i nomadi abbiano continuato a raccogliere e a mescolare musiche e racconti di luoghi e culture diverse, diventando, attraverso una trasmissione dal vivo mai disgiunta dai ritmi e dalle necessità della vita quotidiana, elaboratori viventi di temi antichi che forse tutti un tempo avevamo in comune.
Ricordo un mio vecchio maestro di teatro istriano che, venuto in visita in Romagna, si guardava intorno trasecolato riconoscendo i tratti amalgamati di contadini e zingari in volti ereditati da chissà quale antica mescolanza.
Tengo presente un documentario che racconta come un'antropologa sia partita in cerca delle origini di un canto ereditato dai suoi vecchi. Viaggia in tutto il mondo, incontrando gli interpreti e le versioni più disparate della stessa affascinante melodia. Ogni cantante, ogni musicista, ogni autore, ogni paese rivendica come sua quella canzone, ma nella scena finale, studiosi, cantanti, ballerine e l'antropologa stessa, trovano un modo di cantare e danzare in coro la stessa melodia. (Elena Bucci)
di Elena Bucci
regia Elena Bucci
con Elena Bucci
al violino e al pianoforte Dimitri Sillato
luci Loredana Oddone
drammaturgia del suono e registrazioni Raffaele Bassetti
grazie a Davide Reviati e al suo libro Sputa tre volte
aiuto all'allestimento Nicoletta Fabbri
produzione Le Belle Bandiere, Regione Emilia Romagna, Comune di Russi
in collaborazione con Festival delle Colline Torinesi
Prossime date
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