Il cielo non è un fondale
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Strepitoso! Uno spettacolo che va visto. Surreale e allo stesso tempo realistico. Loro quattro in scena con il loro ritmo incalzante non danno tregua allo spettatore che non può fare altro che godersi uno spettacolo con la S maiuscola
Sinossi
I sogni, dice il filosofo George Didi-Huberman, ci lasciano soli. Nella solitudine dei nostri sogni gli altri, come attori su un palcoscenico, sono e non sono se stessi. Il cielo non è un fondale parte da un sogno che è a sua volta generato da una canzone. È lì, tra il buio e il corpo della musica che inizia il vero, paradossale lavoro del teatro: sognare gli altri assieme a loro, in uno spazio scenico vuoto che si ingrandisce e si restringe, come l'architettura, a un tempo contratta e smisurata, della nostra mente. In questo luogo sospeso, Antonio racconta di aver sognato Daria nei panni di una barbona e, pur avendola riconosciuta, di essere passato oltre; quel gesto innesca una ritmica di incontri e di misconoscimenti, di cadute e di incidenti, di parole e di canzoni, scandita da due sentimenti contraddittori: la paura di essere noi stessi l'altro, l'escluso, "l'uomo che mentre tutti sono al riparo resta da solo sotto la pioggia" e il desiderio di metterci, per una volta, al suo posto. Ma come conciliare la compassione e un'obesità dell'io che non resiste alla tentazione di sostituire a ogni storia la propria?
In scena quattro persone slittano continuamente fino alla soglia di figure intraviste che non potranno mai essere dando vita a un atto drammatico "senza trama e senza finale" (come suggeriva Cechov a un giovane autore) che si avventura alla ricerca di chi sono gli altri in noi e di chi siamo noi negli altri. In una metropoli di tutti e di nessuno, che si porta appresso bagliori di Roma, di Milano, di Londra, appaiono e scompaiono le figure di Alom, il venditore di rose che un tempo era un generale nell'esercito del Bangladesh, di Mohamed il cuoco pakistano, della vera barbona incrociata nel giardino del sogno e che assomiglia a Daria, e poco importa se siano ricordi di autentici incontri o fantasmi rimasti impigliati a una fotografia ingiallita scattata nel 1902 ai proletari dell'East End londinese addormentati in un parco.
La vita passa oltre, ma il teatro, almeno per un momento, può inchiodarla alle sue sviste. E tornare a ribadire con Rimbaud che, per quanto possiamo difenderci dalle conseguenze di questa affermazione, "io è un altro".
uno spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
con Francesco Alberici, Daria Deflorian, Monica Demuru e Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesco Alberici e Monica Demuru
testo su Jack London Attilio Scarpellini
musiche Dalla, Mina, Händel, Battisti
la canzone ‘La domenica’ è di Giovanni Truppi
assistente alla regia Davide Grillo
disegno luci Gianni Staropoli
con la collaborazione di Giulia Pastore
costumi Metella Raboni
costruzione delle scene Atelier du Théâtre de Vidy
direzione tecnica Giulia Pastore
accompagnamento e distribuzione internazionale Francesca Corona
organizzazione Anna Damiani
una produzione Sardegna Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Emilia Romagna Teatro Fondazione in coproduzione con A.D., Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Romaeuropa Festival, Théâtre Vidy-Lausanne, Sao Luiz – Teatro Municipal de Lisboa, Festival Terres de Paroles, théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
con il sostegno di Teatro di Roma in collaborazione con Laboratori Permanenti/Residenza Sansepolcro, Carrozzerie NOT/Residenza Produttiva Roma, fivizzano27/ nuova script ass. cult. Roma
Prossime date
Nessuna data in programma
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